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33mo Memorial Stefano Ferraris

Torino, fino a ieri, erano tanti piccoli particolari sfuocati a formare un unico, brutto ricordo: i viali come disegnati su un enorme foglio di carta millimetrata con la consegna di non lasciare mai le righe, i quartieri dormitorio in stile sovietico e un centro che sì, dicono carino ma di certo non può esserlo a sufficienza per trasformare una città dall'animo prettamente industriale in un posto che dici bello, mi piace. Erano i primi anni '90 e a Torino, di tanto in tanto, andavo per lavoro. Distratto dal pregiudizio e da quelle mescolanze che ora ho imparato ad amare, incapace di andare oltre la superficie. Dimentico della sua storia.

Sabato, invece, sabato Torino era bellissima. E non solo per via dell'atmosfera festosa del Torino Jazz Festival o della modalità turista attivata. Sabato Torino era proprio bella. Torino è l'armonia delle sue architetture, lo sfarzo di Palazzo Reale, il cielo sopra Piazza San Carlo e Piazza Castello, il porticato di Via Po, Piazza Vittorio Veneto e la vista della collina di Superga, la Basilica, la Mole Antonelliana, la Cavallerizza, il Po e i suoi ponti. Certamente del tanto altro che non abbiamo avuto modo di vedere.

Torino m'ha sorpreso raccontandomi una storia di quelle che non capitano proprio a tutte le città, ma con la vitalità di chi non vive all'imperfetto. Torino era bellissima e pure le periferie. La campagne, poi, i paesi, la provincia. L'abbazia di Staffarda.

In questo fine settimana, io e Monica volevamo respirare aria diversa da quella di Milano e a portarci a Torino è stata una corsa. Il Memorial Stefano Ferraris organizzato a None dagli amici della Podistica None. Nei miei propositi, questa doveva essere l'opportunità per tapasciare con Davide, Marco, Mario, Giovanni e gli amici con cui avevamo passato una splendida giornata qualche mese fa, a Venaria Reale. Ma non avevo fatto i conti col Partigiano, che nel weekend lungo Davide se l'è portato via, e col fatto che il gruppo sportivo era impegnato a organizzarla, la gara. Mi sono ritrovato a correre da solo, insomma. E correre per correre, ho provato a darmi un obiettivo, che è l'ormai ricorrente 10.000 sotto i 40 minuti. Obiettivo molto probante, a cui mancano solo una trentina di secondi. Lo stato di grazia era condizione necessaria per farcela e già prima della partenza sentivo di non essere in buona compagnia. I 15 chilometri percorsi a piedi il sabato me lo hanno confermato già durante il riscaldamento.

Parto, m'attacco a un treno che sembra viaggi al mio passo e con discreta fatica riesco a stare leggermente sopra ai 4 Km/minuto. Al quinto, il ritardo accumulato è già di 25 secondi e capisco che nei successivi 5 non sarei stato in grado di migliorare i miei tempi. Decido quindi che è inutile continuare ad ammazzarmi per non trovare soddisfazione all'arrivo, rallento di una quindicina di secondi e mi trascino senza grande piacere, a parte quello di correre nella Riserva, fino al traguardo. Il crono è di 48'10", accettabile per gli 11200 complessivi del percorso, ma ottenuto con troppa fatica anche quando la fatica non sembrava essere necessaria.

A cancellare del tutto il retrogusto leggermente amaro che m'era rimasto in bocca ci hanno poi pensato Giovanni e Mario che, interrotte le premiazioni di chi un premio se l'è guadagnato lungo il percorso, mi hanno insignito del trofeo per l'atleta arrivato da più lontano. Un gesto di simpatia e amicizia che, in sincerità e senza voler essere inutilmente buonista, ricorderò con molto più piacere che se non avessi raggiunto l'obiettivo di cui dicevo prima.

Bel posto, Torino. Belle persone, i miei amici della Podistica None.

Il Miglio Ambrosiano

Tolto l'arrivo della Stramilano 2013, l'ultima volta che corsi all'Arena avevo 13 anni. Era il 1983. Avevo partecipato alle qualificazioni del Guizzo Vincente e vinto la mia batteria con un buon tempo. Gli ottanta metri, insieme al salto in alto, erano la mia specialità.
Con l'Arena ormai svuotata dell'orda di partecipanti, e all'epoca erano davvero tanti, aspettavo sulle tribune col mio amico Filippo che venissero comunicati i nomi dei qualificati per le semifinali. I più veloci di Milano. Lo speaker iniziò dai migliori, ma il mio nome, Andrea Lo Faro, non era tra i primi nove. Rimaneva da pronunciare l'ultimo. Inutile dire che sognavo fosse il mio. 
Decimo e ultimo qualificato.
Una pausa, non so dire esattamente quanto lunga, per me lunghissima. Come nei film, anche se, credimi, non è un film o il frutto della mia fantasia quello che sto raccontando.
Andrea.
Ci siamo. Ce l'ho fatta.
Pronunciata la prima sillaba del cognome, mi sono sentito come un palloncino che scappa dalle mani di un bambino. Altro che Moccia e i suoi 3 metri sopra il cielo. Ma è stato solo un istante.
Locatelli.

Alle semifinali, insieme ad Andrea Locatelli e ai primi nove, parteciparono altri sei ripescati. I cui nomi vennero fatti solo alcuni giorni dopo. Io ero il terzo di quei sei, tredicesimo tempo. L'accesso alle semifinali, dove le cose non andarono come speravo, non ha cancellato il ricordo di quell'istante in cui la forza di gravità sembrava avesse interrotto la sua azione sul mio corpo. Gioia e delusione nel volgere di una sillaba. Andrea Locatelli al posto di Andrea Lo Faro.
E' con quel ricordo che, a distanza di 33 anni, sono entrato all'Arena per partecipare alla terza tappa del circuito del Club del Miglio.


L'attesa mi rende euforico. Adoro quand'è così. In tribuna c'è mio padre, in gioventù una promessa del mezzofondo e ora sempre più appassionato delle mie sorti, già che ho scelto di cimentarmi nella sua specialità. Non solo. Salendo i gradini trovo Omar, che più tardi scriverà una mail a un gruppo di amici in comune che inizia così: oggi aspettavo il tram in zona Arena con Anna, abbiamo sentito voci provenire dall'Arena, Anna si era fatta l'idea che fosse uno spettacolo per bambini, io speravo fosse qualche gara di atletica, così siamo andati a vedere. Gara di atletica. Io felicissimo, Anna contenta (per mezz'ora) di vedere bambini e ragazzi che correvano e saltavano. speriamo venga voglia anche a lei.
A un certo punto mi viene incontro una faccia conosciuta, era il Lofa con la maglia dei Podisti Anonimi che partecipava a una gara sul Miglio per un circuito senior.

Insieme a mio padre c'è Omar, quindi. E forse pure Micaela, compagna di scuola delle Superiori che ho incontrato lì per caso con i figli e che, non fosse stato per la sua insistenza, non avrei mai riconosciuto. Ci sono Giovanni e Mario, come sempre, e come sempre Jessica. Alle solite facce se ne aggiungono tante altre, questa volta siamo oltre 500. Di cui 20 solo nella mia categoria.
Nello schierarmi, mi perdo un po' su a chiacchierare con gli altri concorrenti e dimentico di accendere il GPS. Quando lo faccio, è troppo tardi. Lo sparo è lì lì a venire.

Parto dietro tutti, ma, con un azione fin troppo decisa, prendo la corda dopo pochi metri e mi posiziono subito a ridosso dei primi. E' in prima corsia che devo correre, me l'hanno insegnato i 30 metri in più "di cortesia" fatti a Voghera per non dar noia ai più veloci. Devo evitare di partire a razzo e poi scoppiare, ma allo stesso tempo tenere un buon ritmo. Trovare il giusto equilibrio. Il GPS fa tritri dopo circa 200 metri, ha trovato il satellite, lo avvio e prendo come riferimento una linea. Forse proprio quella dei 200.

Concludo il primo giro senza avere la minima idea del tempo, che comunque non dev'essere male, a giudicare dai pochi che mi stanno davanti e i tanti che mi stanno dietro. Arrivo ai primi 400 metri tracciati, 1'21". Va fin troppo bene e sento di poter andare avanti in quel modo. Passo lungo il rettilineo delle tribune principali e sento Omar urlare vai Lofa e mio padre, appostato in pista con la macchina fotografica, incitarmi con un vai bene così Andrea, continua così! 

Il secondo giro tracciato dice 2'50": perdo qualcosa rispetto al primo, ma sono in vantaggio sul mio obiettivo. Curvo, arrivo sul rettilineo del terzo giro e mi trovo un muro di vento contrario che mi spezza gambe. Ma il tritri del primo chilometro (3'30", perfetto!) e il dindin della campanella ravvivano il mantra che mi ripeto da che inizio a essere in debito di ossigeno e gambe, mantra che fa dura poco dura poco dura poco. Faccio la faccia delle grandi occasioni e taglio il traguardo ignaro del tempo, ma lasciandomi dietro parecchi avversari. Alla fine, il crono ufficiale è 5'47", 11 secondi sotto il tempo di Voghera. Dodicesima posizione di venti.
Contento contento. Tanto tanto.
Il prossimo Miglio è in notturna al XXV Aprile, altra pista storica dell'Atletica milanese. Al 13 di maggio manca ancora troppo tempo, però.

Le foto, anche stavolta tantissime e bellissime, sono QUI (Salvatore Lo Faro) oppure QUI  (Antonio Capasso).

La margherita, gli occhiali e i titoli di coda

Doveva essere il fine settimana delle rinunce, s'è trasformato nella prima accoppiata sabato-domenica dopo oltre due anni: per somma gioia della margherita, tra il Miglio di Voghera e la Run Donato ho scelto entrambi. Nonostante il piede, i bronchi in rivolta e, più di tutto, la paura che il mio Tendine d'Achille mi facesse pagare cara una licenza che diventa un precedente al quale non potrò che dare seguito.

Ne è venuto fuori un weekend che sì, con la ciliegina finale che non ho saputo mettere sul traguardo della Run Donato sarebbe stato un weekend memorabile, ma che in verità ricorderò perché ho rotto i vecchi occhiali che usavo per correre. I miei occhiali da corsa. Ci ho fatto un sacco di corse, coi miei occhiali da corsa. E tutti gli allenamenti tutti da che correvo con le scarpe del Decathlon. Che poi della corsa non avevano niente, sia chiaro, ma erano i miei occhiali da corsa. E forse non è un caso che in questo weekend mi siano state fatte millemila foto bellissime. Con su gli occhiali, ovvio. Forse i miei occhiali hanno voluto farsi ricordare così. In pista a Voghera a migliorare sia il Chilometro che il Miglio. E a San Donato ad abbassare di una dozzina di secondi il 5000.

A Voghera ho scelto la tattica suicida: al secondo appuntamento di dieci del Club del Miglio volevo provarci. Volevo capire quanto sarei durato partendo subito a razzo. Risultato: un primo giro in cui non mi capacitavo del fatto che nessuno mi superasse e nonostante corressi in seconda corsia per permettere ai concorrenti più veloci di non attardarsi dietro di me.

Passaggio a fine primo giro in terza posizione, proiezione tempo finale un irreale 5 minuti netti. 800 ancora tra i primi, poi tracollo totale negli ultimi due giri. Ma crono finale tre secondi sotto il mio limite, abbattuto il muro dei 6 minuti. La lezione è molto chiara, mai più così.
Sabato, all'Arena, l'obiettivo è ovviamente limare qualcosa, ma in maniera più lineare. Senza passare dai 3'20" del primo Km ai 3'58" dei secondi 600 metri.

A San Donato ho deciso solo all'ultimo di andare, troppo tardi per iscrivermi alla competitiva. A preoccupare, più che il piede, erano i bronchi. Ne è venuta fuori una gara corsa in totale solitudine, per certi versi fotocopia di quella del giorno precedente: straordinaria fino a oltre la metà, in deciso calando per gli ultimi chilometri. Il vento che si è alzato a metà gara è complice ma non scusa, dubito sarei riuscito a stare sotto i 4'/Km per tutti i 10 Km del percorso. Non stavo bene e non sto certo vivendo un buon momento dal punto di vista atletico. Speravo di tornare a casa con un gran sorriso, sarà per un'altra volta.

Il prossimo appuntamento sarà all'Arena di Milano, sabato 16 aprile. Un altro miglio a rotta di collo, in compagnia degli amici Mario e Jessica. Di Fulvio, instancabile organizzatore della manifestazione e di centinaia di appassionati Miglisti.
Probabilmente il mio ultimo Miglio da Podista Anonimo.
Probabilmente l'ultimo post a firma Lofa su questo blog.

QUI ci sono le bellissime foto di Massimo Sartirana delle batterie maschili. Mi trovi a cavallo tra pagina 2 e 3.

Il Club del Miglio - 17mo Miglio di Piero

Miglista, se lo cerchi sui dizionari, non lo trovi. 
Lo trovi in pista. 
Miglista, con un po' di fantasia e un'estemporanea licenza linguistica, è e sarà, almeno su questo blog, l'atleta o supposto tale che corre il Miglio in pista.
Per sgomberare il campo da equivoci, chiarisco per chi non è pratico di queste parti che a scrivere è uno dei supposti tali, uno dei pochi, visto l'alto livello della competizione. Corro per non arrivare ultimo e, in questo primo dei 10 appuntamenti del Club del Miglio, non solo non ce l'ho fatta, ma ho preso addirittura 28 secondi da chi mi ha preceduto. 59 dal primo. Poi è vero che mi frega meno di zero se ultimo penultimo o terzultimo, conta solo che io mi diverta, come è stato e come sarà anche se dovessi continuare ad arrivare ultimo per tutti e 9 i prossimi appuntamenti della manifestazione, piede destro scassato e imprevisti permettendo.

Fulminato sulla via di Pioltello, quindi? No.
Non esattamente.
E' che è in posti come il Centro Sportivo di Pioltello o lungo le campagne di una qualsiasi periferia agricola o industriale, col sole o con la galaverna, che c'è la passione. E' in posti come questo che la corsa continua ad avere il suo significato autentico, genuino. Qui la gente - non bastava il lucro delle mille inutili run qualcosa per fighetti vestiti di tutto punto, ora ci si è tuffata pure la politica - è solo bella gente. Autentica. Genuina. Appassionata. Qui senti di condividere qualcosa con ognuna delle persone che gravitano intorno a quei 400 metri di tartan. E che su quei 400 metri di tartan ci lasciano l'anima per cinque sei sette minuti. Felici di farlo.

La gara: nell'affrontare per la prima volta i 1609,34 metri della distanza, mi ero dato un obiettivo: 6 minuti. Obiettivo ancora più ignorante del solito, vista la novità. Averci impiegato un solo secondo in più, senza ancora aver coltivato l'istinto del tutto subito, è motivo di soddisfazione. E speranza per le gare a venire.
Il Miglio è intenso, è correre senza pensare, senza dovere o potere fare calcoli. E' difficile, se non ci hai mai provato, ma nel punto di massimo sforzo mentale, che per me si è presentato subito dopo aver sentito il trillo del Km 1 del Garmin, subito dopo il trillo, il tempo di fare una curva, senti suonare la campanella dell'ultimo giro e capisci che il traguardo arriva presto. 400 metri, solo 400 metri. Durissimi, ma infondo veloci a passare.

A Pioltello ho incontrato Mario e Giovanni, compagni di squadra degli amici della Podistica None. Ho visto un M65 chiudere con un tempo migliore del mio. Ho visto pettorali riciclati dall'edizione dell'anno precedente e pistole che fanno cilecca, particolari che, ai miei occhi, aumentano il valore di manifestazioni che devono essere, non apparire. Organizzate con pochi soldi ma smisurate quantità di passione. Avrei visto pure Jessica arrivare seconda di categoria, se non fossi andato via senza neanche fare la doccia.

Ho visto cose e persone che rivedrò con piacere. A partire dal 9 aprile a Voghera (click sull'immagine per il calendario completo).


il Mito

Alla voce mito la Treccani dice così:
s. m. [dal gr. μϑος «parola, discorso, racconto, favola, leggenda»]. –
Idealizzazione di un evento o personaggio storico che assume, nella coscienza dei posteri o anche dei contemporanei, carattere e proporzione quasi leggendarî, esercitando un forte potere di attrazione sulla fantasia e sul sentimento di un popolo o di un’età: il m. di Cesare; il m. di Roma nel medioevo; il m. napoleonico; fare un m. di qualcuno o di qualche cosa; anche, di personaggi o eventi (reali o no) che, amplificati dall’immaginazione popolare, diventano simboli di comportamenti o di atteggiamenti umani attraverso la mediazione letteraria: il m. di Faust; il m. di Don Giovanni; il m. della corsa all’oro nel Nordamerica; oppure, più recentemente, di personaggi dello spettacolo o dello sport che, per la grande popolarità raggiunta, siano diventati degli idoli per le folle: il m. di Rodolfo Valentino, della divina Greta Garbo; il m. della Callas; il m. di Coppi nella storia del ciclismo; diventare un m. dell’atletica; la fine di un m., l’inizio del tramonto di un atleta, quando perde la sua invincibilità.
Dice proprio così: “diventare un mito dell’atletica” perché lo sa, la Treccani, che l’atletica, così come il ciclismo (citato non a caso), è sport di fatica ed è con la fatica che si diventa miti!
Ecco, io all’atletica (leggera, molto leggera nel mio caso) mi ci sono avvicinato grazie al mio Mito personale, quell’Andrea che vedevo correre sotto casa con la neve, col sole, con la pioggia… E’ grazie ad Andrea che mi è venuta la scimmia della corsa, è con Andrea che ho fatto la mia prima tapasciata, è Andrea che mi ha incoraggiato prima della mia prima Mezza ed è ad Andrea che faccio riferimento ogni volta che ho un dubbio, una domanda, un cedimento.
Leggere il post precedente, quindi, non è come potrebbe pensare chi è andato avanti nella lettura della definizione della Treccani “la fine di un mito, l’inizio del tramonto di un atleta, quando perde la sua invincibilità”, è solamente un passaggio un’umanizzazione del mio Mito che ha aggiunto un pezzo al racconto, al mito (qui la Treccani dice: “Narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore spesso religioso e comunque simbolico, di gesta compiute da figure divine o da antenati (esseri mitici) che per un popolo, una cultura o una civiltà costituisce una spiegazione sia di fenomeni naturali sia dell’esperienza trascendentale, il fondamento del sistema sociale o la giustificazione del significato sacrale che si attribuisce a fatti o a personaggi storici”) della Corsa. E’ il racconto dello sforzo, della fatica, della caduta, della delusione e del rialzarsi subito dopo per un’altra corsa e poi un’altra e un’altra ancora.
Fino a quando, così come mi ha promesso a caldo (e io mantengo le prove in una conversazione salvata su Whatsapp!) il mio Mito mi accompagnerà nella mia prima (e probabilmente ultima) maratona!!!
Ben sapendo che, per concludere con la Treccani, la mia prima maratona assomiglia molto a un “desiderio o speranza ritenuti irrealizzabili; sogno, utopia: il miglioramento della situazione è, almeno per ora, un m.; il calo dell’inflazione si è rivelato un mito. Soggettivamente o polemicamente, possono essere definite come mito in questo senso limitativo anche alcune di quelle idee che per altri hanno o hanno avuto un valore simbolico-religioso, in quanto ritenute prive di validità razionale e di carattere pratico: il m. dell’uguaglianza sociale, il m. del benessere universale.

 E’ pur sempre un mito anche questo no?

L'ultima Maratona. Il primo ritiro.

La marcia di avvicinamento alla Maratona di Milano procedeva bene. Gli allenamenti, ancora 3 settimanali, mi portavano a percorrere poco meno di una cinquantina di chilometri a settimana. Pochi dolori, nell'ordine delle cose. Avevo fiducia.
A inizio gennaio, con cauta progressione (uno massimo due Km in più sul lungo domenicale), ho iniziato a estendere durata e percorrenza e lì ho sentito i primi cedimenti. Ogni uscita, anche le infrasettimanali da 12 Km scarsi, era preceduta dal dubbio. Dalla paura di farmi male. Allenamento oppure logoramento era ormai la domanda ricorrente. Ho capito che non potevo andare avanti in quel modo e, senza voler minimamente prendere in considerazione l'idea di non correre una Maratona nemmeno in questa, di primavera, ho scelto di prendermi un rischio. Di ridurre di 5 settimane il deterioramento fisico e mentale e di iscrivermi alla Maratona delle Terre Verdiane. Era il 30 di gennaio quando, per non avere ripensamenti, ho preso la macchina e sono andato dritto a Fidenza col tesserino e la copia del certificato medico. Cinque settimane di allenamento in meno, meno rischi di farmi male.
Il 30 di gennaio era un sabato. Il giorno dopo sono uscito con 28 km da correre e corsi anche bene, se vogliamo, ma ho poggiato il piede destro sullo spigolo di un sasso e mi sono fatto male. 
Ho anticipato i tempi per preservarmi e il giorno dopo l'iscrizione è successo quello che temevo.
Sono stato fermo una settimana, nella speranza che il dolore all'altezza dell'avampiede si esaurisse, ma niente. Nelle due successive settimane ho scelto di ridurre la percorrenza, perché il Tendine d'Achille destro è il mio tallone d'Achille. Ho scelto di arrivare più o meno sano alla partenza, consapevole che poco più di 30 chilometri alla settimana non sarebbero stati sufficienti per preparare una Maratona. Risoluto a correrla - il Coach dice coraggioso, io coglione - non ho preso in considerazione l'idea di non andare a Salsomaggiore il 28 di febbraio. L'unica cosa avveduta che potessi fare.
Già prima della partenza, sapevo di dover trovare qualcosa che non avevo per portare a compimento la gara. Avevo fiducia. Pensavo che il tempo m'avesse insegnato a comprendere e a gestire i segnali del mio corpo. Contavo su questo, e sull'adrenalina.
Allo sparo, sono andato subito alla ricerca del pacer delle 3 ore 10 minuti. Quello era il passo che ho tenuto agevolmente negli allenamenti. L'ho raggiunto circa al terzo Km. Ho corso in gruppo fino al Km 20, poi un cavalcavia affrontato con molta cautela mi ha portato a staccarmi di una decina di metri. Forse 20, non di più. Avessi forzato per qualche secondo, mi sarei ricongiunto, ma ho scelto di non sprecare inutilmente energie. Ero nei tempi, andava bene. Non facevo granché fatica a tenere quel ritmo e così è stato fino al Km 30. L'attraversamento della rocca Meli Lupi sapevo essere una sorta di spartiacque tra i primi 30 banali chilometri e i 12 che fanno di una corsa la Maratona. Ho sceso gli scalini al passo e ho camminato per una manciata di metri. Mi sono massaggiato i polpacci e ho ripreso. Per poco. Il Tendine d'Achille destro ha iniziato a strillare e il dolore sotto al metatarso si è esteso pure alle dita. L'appoggio era doloroso, anche se sopportabile. Mi sono fermato nuovamente, ho raccolto energie e idee, ma ho rapidamente capito che il mio corpo non voleva più saperne. Se non ci arrivi da solo, te lo faccio capire io. Mi sono seduto su un muretto, affranto ma non ancora vinto. E' una crisi, magari passa. Quando però ho sentito gli occhi chiudersi e la testa cadere senza controllo verso il basso, come sul divano con la TV, lì ho capito che la Maratona delle Terre Verdiane era conclusa. Non potevo più andare avanti. Così come non potevo pensare di camminare una decina di chilometri in quello stato, con la pioggia che raffreddava ulteriormente il mio corpo stanco e sudato. Dovevo trovare una macchina che m'accompagnasse all'arrivo. Dopo il ristoro del Km 34, in lontananza, vedo due auto dell'organizzazione che ne fermano una terza. Capisco che quella è la mia unica speranza. Corro, se quello che ho fatto può essere assimilabile alla corsa, e riesco a raggiungere l'auto prima che parta. Non c'è bisogno di dire agli addetti che mi sento male, lo capiscono da soli. Autorizzano l'automobilista a guidare lungo il percorso e arrivo al palazzetto di Busseto. Incrocio Andrea, col quale avevo chiacchierato mentre ero in gruppo, lui ce l'ha fatta e con tanto di personale. Gli dico del mio ritiro, lo incito per i pochi metri che gli restavano da correre. Arriva il Mauri con la borsa, faccio la doccia senza smettere di tremare.
Ho scritto in più di un'occasione che la Maratona esige rispetto, rispetto che, nei fatti, si declina in preparazione adeguata: nonostante le intenzioni e il grande impegno profuso fino a quel maledetto sasso, ho mancato. Giusto che io abbia pagato.

Preparare una Maratona è cosa impegnativa e lunga: in gioco vi sono variabili che non possiamo controllare, ma anche costanti. La mia costante, nel corso degli ultimi due anni, è la tendenza a farmi male per via di problemi fisici strutturali ai quali forse potrei porre rimedio con pratiche specifiche. Forse. Ma quando sai che dopo tanti sacrifici può comunque capitare un sasso, allora decidi che basta. Accetti i tuoi limiti e il 3h42'55" che dista 13 minuti dal tempo che sognavi di fare quando hai deciso di correre una Maratona. Perdi, manco fosse la prima volta. E, sicuro che di sconfitte ce ne saranno tante altre, continui a giocare. Anche se a un livello più basso. Perché, alla fine, è giocare la cosa che conta.
Giocare e sorridere.

Il tempo di riprendermi e ci vediamo a una delle prossime Mezze.

L'ultima e poi smetto (con le Maratone)(3)

Quelle che ho elencato nel post precedente non vogliono essere scuse. Non lo saranno. Ci provo a prescindere, come piace a me.
La scommessa ignorante per questa Maratona delle Terre Verdiane è qualcosa nell'intorno delle 3 ore 20 minuti. Senz'altro sotto le 3h30', che è l'obiettivo che mi muove dal giorno in cui ho deciso di correre una Maratona. Obiettivo che nelle due precedenti occasioni ho mancato.
Per tagliare il traguardo in quel tempo mi aggregherò al gruppo delle 3h10' e penso di poter reggere i 4'30" al Km per una trentina di chilometri. Poi inizierà la tragedia. Ma se nei restanti 12 chilometri mi troverò a correre, mediamente, anche un minuto al Km più lento, be', calcolatrice alla mano, dovrei chiudere in 3 ore 22 minuti. Va bene anche qualcosa di più.
Idealmente, quando perderò contatto col gruppo, smetterò di guardare il cronometro. Mi farebbe solo del gran male.
I puristi diranno che una Maratona non si corre così e mi trovano d'accordo. I puristi devono però capire che un quarantacinquenne fumatore vinazzato con una caviglia in avanzato stato di artrosi e un legamento rotto non è il prototipo dell'atleta che dovrebbe correre una Maratona con tanto di split negativo. A me piace correre e cerco di impegnarmi il più possibile dal momento in cui metto la scarpette a quando le tolgo. Correrei tutti i giorni se il mio corpo me lo permettesse, ma non posso. E, giusto per dimostrare che l'aggettivo ignorante non è usato a caso, concludo dicendo che gli esercizi di squat e core stability non li faccio perché mi rompono il cazzo. Pure la piscina.
L'ignoranza è felicità.

(segue)

L'ultima e poi smetto (con le Maratone)(2)

E' dal 6 aprile 2014 che aspetto di correre la mia terza Maratona, sarò senza'altro cazzuto quanto il Mauri mi chiede di essere. Ma sono anche cosciente del fatto che essere cazzuto e basta non sarà sufficiente e questo perché in gioco ci sono una serie di variabili che, già prese una a una, avrebbero un impatto non indifferente sulla corsa e sul risultato finale. Figuriamoci se sommate, come, a giudicare dai fatti e dalle previsioni (del tempo), sarà.

La prima: Il 31 gennaio ho appoggiato molto male il piede destro su un sasso lungo lo sterrato dell'Idroscalo: ancora oggi, dopo 25 giorni, mi sembra di avere un chiodo conficcato nell'avampiede. Niente di rotto, probabilmente i tessuti molli dice la Ba. Per evitare che il dolore degenerasse in altro, cosa che normalmente (mi) succede, mi sono fermato una settimana e, nelle due successive, ho ridotto le già poche uscite settimanali a due. Nel mese di febbraio, quindi, ho percorso solamente 101 Km. Poco più di 30 alla settimana. Il Tendine d'Achille non s'è infiammato e la scelta "conservativa", almeno in questo senso, ha funzionato. Ma non ho fondo. Per niente. Dopo i 30, sarà una tragedia. Sanguinosa. Meglio: acidolatticosa (di questi tempi, l'Accademia della Crusca non avrà nulla da eccepire).

La seconda: Il ciclone Golia. Previsti pioggia e vento lungo il percorso. Freddo. Dovrò coprirmi, suderò. E sudando consumerò inutilmente energie.

La terza: (Non entro nei dettagli, ché diventa lunga) Ho un problema agli occhi, che si presenta di tanto in tanto. Di recente s'è presentato e non potrò correre con le lenti a contatto. Dovrò usare gli occhiali. E quando piove, con gli occhiali, è un cazzo di casino. Anche col cappello. Senza dimenticare che i miei occhiali da ragioniere e il cappellino rain di Decathlon sminuiranno l'overall appearance del mio outfit.

La quarta: Bronchite. E' la stagione, d'altronde.

(segue)

L'ultima e poi smetto (con le Maratone)(1)

Ieri sera il Mauri m'ha detto che domenica devi essere concentrato solo sulla corsa. Che domenica non puoi certo pensare alla logistica o ai dettagli di poco conto.
Ieri sera il Mauri m'ha detto che domenica mi ci porta lui, a Salsomaggiore.

Ma Mauri, gli faccio io, dobbiamo partire presto. Il ciclone Golia si abbatterà sull'Italia. La pioggia, il vento, il freddo.
Tranquillo, mi risponde lui, basta che, e lascia che sia io a finire la frase.
Io so cosa il Mauri vuole sentirsi dire. E lui sa che io so. Aggiusto lo sguardo, arriccio il naso, stringo i pugni e li agito all'altezza del bacino mentre, a denti stretti, gli dico che sì, Mauri, cazzuto, Mauri, cazzuto!

(segue)